Filosofia della
Via dei Procacci
La “via dei procacci” non è un cammino religioso o naturalistico; non è un cammino con le tappe ben segnate ed i luoghi di sosta ben definiti; non è un cammino con il passaporto cartaceo, i timbri ed i tamponi di inchiostro; non è un cammino che segue le regole richieste dal CAI e dagli uffici regionali addetti alla loro regolamentazione. La “via dei procacci” è un cammino anarchico.
C’è una traccia GPS, sono indicate quelle poche strutture ricettive esistenti e poco altro di più. I punti dove la natura tenta di rioccupare i propri spazi vengono puliti e liberati quando si ha tempo. Chi vuole percorrerla deve prepararsi alla possibilità di incontrare degli ostacoli e il premio per chi arriva alla fine è una spilletta.
I sentieri ed i cammini stanno diventando superstrade costeggiate da autogrill. Percorrere la nostra “via” non è lanciarsi nell’avventura ma poter ancora avere la possibilità di cercare di capire quale sia la direzione giusta; non essere guidati ma guidare, avendo sempre in mente la citazione “viaggiare è meglio che arrivare”
La “via dei procacci” è percorrere la storia. La storia del territorio che attraversa e la storia di una famiglia di migranti e camminatori. Migranti perché nella metà del’400 si trasferirono da San Severino Marche ad Abeto e camminatori perché i procacci erano una delle figure postali che nel medioevo attraversava la penisola, lasciando tracce che arrivano ai nostri giorni: in toscana il postino è anche chiamato “il procaccia” e chi porta la posta dalla stazione ferroviaria all’ufficio postale sottoscrive un contratto di procacciato.